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Consolle di controllo della navicella Soyuz TM-32

La consolle è il principale pannello di controllo di una navicella spaziale. Tramite di essa gli astronauti possono valutare il funzionamento dell'astronave e intervenire di conseguenza utilizzando i comandi a disposizione. Quella progettata per la navicella russa Sojuz (Unione, in russo) è stata modificata più volte nel corso del tempo; la prima missione, infatti, risale al 1966. Su di essa sono presenti interruttori e segnalatori luminosi in gran numero e tutti i comandi sono raggruppati in blocchi funzionali per una più semplice gestione nelle condizioni, sempre critiche, di una missione spaziale. La responsabilità dell'utilizzo spetta al comandante della missione che svolge anche il ruolo di pilota e che siede nel seggiolino centrale (dei tre previsti) esattamente di fronte alla consolle. Essendo bloccato dalle cinture di sicurezza che non gli permettono di muovere il busto, per raggiungere i comandi si avvale di una bacchetta telescopica; un metodo decisamente spartano ma efficace che, nel suo essere poco tecnologico in un ambiente che probabilmente lo pretenderebbe, dona a ogni lancio della Sojuz un sapore retrò. La consolle presente al Museo faceva parte della dotazione tecnica della Soyuz TM-32, la storica missione che ha visto a bordo per la prima volta un turista spaziale, il miliardario italoamericano Dennis Tito. Lanciata il 28 aprile 2001, la TM-32 ha attraccato alla Stazione Spaziale due giorni dopo. Fra gli strumenti presenti sul quadro risaltano il display centrale collegato al computer di bordo, sul quale compaiono le indicazioni relative alle funzioni vitali della navicella, un "sorprendente" orologio elettromeccanico e un piccolo globo terrestre che indica, in modo analogico ma geniale, la posizione dell'astronave durante la missione. D-1419

Prototipo di tuta Krechet per esplorazione lunare

Questo cimelio è uno dei manufatti più importanti della storia spaziale sovietica e di tutta la storia dell'esplorazione spaziale in generale. Venne prodotta dalla Zvezda, l'azienda produttrice di tutte le tute sovietiche e russe, ed è il risultato dei primi esperimenti fatti per arrivare alla realizzazione di una tuta in grado di supportare la presenza dell'uomo sulla superficie lunare. Il suo aspetto ricorda nella parte superiore quello delle tute da palombaro e in quello inferiore quello delle tute anti-g usate per i caccia militari. Non è difficile immaginare come proprio dall'esperienza acquisita nell'esplorazione dei fondali marini e degli strati più alti dell'atmosfera, entrambi ambienti ostili per l'uomo, gli ingegneri sovietici abbiano tratto ispirazione per realizzare i primi prototipi della loro tuta alla quale venne assegnato il nome Krechet (Girfalco, in russo). Le maniche sono realizzate in materiale morbido, come morbida è la parte che copre le gambe; sul polso sinistro è fissato un manometro. Sulla parte anteriore del busto, in metallo rigido, sono presenti alcuni connettori di servizio e alcuni comandi a leva mentre quella posteriore è completamente occupata dallo zaino che contiene gli apparati per il supporto delle funzioni vitali. La parte posteriore è separata da quella anteriore ma è incernierata ad essa su uno dei lati. Questo permette di aprirla come se fosse uno sportello consentendo all'astronauta di infilarsi all'interno della tuta come si infilerebbe dentro una navicella (cosa che, di fatto, è......). Il casco, di grandi dimensioni per facilitare la visibilità, è solidale con la tuta e non staccabile. Sono presenti i calzari mentre mancano i guanti. Una grossa flangia di metallo congiunge la parte alta con la parte bassa e sul davanti è presente una manopola collegata tramite un cavo allo zaino posteriore. Una nota di stupore la dà la presenza di passamanerie finemente ricamate utilizzate per evidenti, quanto incomprensibili, funzioni decorative. Ve ne sono sul casco, sulle scarpe, sull bordo dello zaino e persino attorno a uno dei grossi connettori anteriori. D-1421

Microrivelatore di vertice dell'esperimento Delphi

1989 - 2000 DELPHI (un acronimo che sta per "DEtector with Lepton, Photon and Hadron Identification") è stato uno dei quattro principali esperimenti del Large Electron-Positron Collider (LEP) del CERN, uno dei più grandi acceleratori di particelle mai realizzati. Nel suo insieme DELPHI aveva la forma di un cilindro di oltre 10 metri di lunghezza per 10 metri di diametro pesante 3500 tonnellate. Nella sua parte centrale, che costituiva il cuore vero e proprio dello strumento, era posizionato il microrivelatore di vertice (vertex detector) ovvero la camera all'interno della quale avvenivano gli urti fra le particelle che erano state accelerate dal LEP. Nel loro annientamento, l'energia rilasciata in un piccolo volume era paragonabile a quella che esisteva nell'Universo immediatamente dopo il Big Bang ovvero una frazione di secondo dopo la sua creazione. Grazie a quanto predetto dalla teoria della relatività di Einstein, questa energia si poteva convertire in materia, e quindi, in particelle diverse da quelle di partenza. I prodotti della collisione si propagavano in tutte le direzioni e venivano analizzati da strumenti appositamente progettati posizionati tutt'attorno al rivelatore; grazie a questi era possibile identificare le traiettorie e quindi la natura delle particelle prodotte. Il vertex detector, che era realizzato in gran parte in silicio, era lo strumento più vicino al punto di collisione delle particelle; per questa ragione era in grado di fornire un tracciamento molto preciso che permetteva di rilevare particelle con vita molto breve estrapolando le tracce verso il punto di interazione. Era costituito da strati cilindrici coassiali di rivelatori a strisce di silicio accoppiati in corrente alternata con raggi medi di 6,3, 9,0 e 10,9 cm. L'esperimento DELPHI, costruito tra il 1983 e il 1988, entrò in funzione nel 1989. Dopo lo smantellamento del LEP, avvenuto a partire da novembre del 2000, anche DELPHI venne smontato; l'operazione si concluse nel settembre 2001. D-1757